Nel precedente articolo abbiamo parlato del ruolo dell’olio di palma nel processo di deforestazione dei paesi produttori e del suo forte impatto sulla biodiversità e sulla qualità di vita delle comunità locali.
In tanti ci avete scritto, chiedendoci se per mitigare le problematiche ambientali e sociali legate alla produzione dell’olio di palma, sia necessario eliminarlo dagli assortimenti alimentari e orientare la scelta su grassi vegetali alternativi.
Il dibattito sull’olio di palma è vivo e divide da anni produttori e comunità scientifica. Controversi sono i pareri sulle possibili soluzioni per un’appropriata regolamentazione nell’utilizzo e nella produzione.
Una risposta unanime ancora non c’è, per questo abbiamo deciso di approfondire la tematica valutando pro e contro.
L’olio di palma ad uso alimentare
Ingrediente essenziale di molti prodotti e semilavorati, l’olio di palma è un grasso vegetale largamente usato nel mercato industriale e alimentare per la sua versatilità tecnologica, l’elevata resistenza al calore e la fragranza neutra.
È ricavato dalla spremitura della polpa dei frutti di palma (principalmente Elaeis Guineensis) ed è poi sottoposto a processi di frazionamento meccanico, trasformazione e raffinazione per migliorarne le qualità organolettiche a seconda del settore di applicazione.
L’elevato contenuto di grassi saturi conferisce all’olio di palma consistenza solida anche a temperatura ambiente, per questo è spesso impiegato nelle preparazioni di prodotti dolciari lievitati, in cui garantisce croccantezza e friabilità.
È sempre più presente nelle creme spalmabili e nelle maionesi di produzione industriale, come ingrediente addensante. Equivale infatti per consistenza e impiego al burro e alle margarine, alle quali viene preferito per vantaggi puramente economici.
Nel Febbraio 2021 il prezzo dell’olio di palma è di 1.172 €/ton – comprensivo di sdoganamento, trasporto, raffinazione e confezionamento – più economico di qualsiasi olio vegetale di produzione italiana.
I bassi costi di importazione l’hanno reso uno degli oli alimentari più utilizzato al mondo, nonostante l’OMS l’abbia dichiarato responsabile dell’aumento del rischio di patologie cardiovascolari, a causa dei contaminanti da processo che sviluppa durante le lavorazioni.
L’olio di palma fa male?
Premettendo che nessun alimento e condimento alimentare è definibile di per sé rischioso e che i fattori di rischio sono da commisurare ai livelli di assunzione, in una dieta bilanciata l’olio di palma – se grezzo – nutrizionalmente è dannoso per la salute.
L’elevato contenuto di acido palmitico presente nell’olio di palma, causerebbe infatti un innalzamento dei livelli di colesterolo LDL e di trigliceridi solo se assunto in eccesso. Questo è l’ultimo parere espresso dell’Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare.
Diversamente dall’olio grezzo, quello raffinato se lavorato a temperature superiore ai 200°C nelle fasi di deodorazione, decolorazione e neutralizzazione, può sviluppare sostanze che ad alte concentrazioni si rivelano genotossiche, come segnalato dal European Food Safety Authority.
Negli ultimi anni l’olio di palma raffinato è stato al centro di molte polemiche: sicuramente non è il più salutare in commercio ma neppure il peggiore, è giusto precisare che il potenziale rischio è legato alla frequenza e alla quantità di consumo.
Consigliamo tuttavia di fare attenzione alle etichette per accertarsi della tracciabilità, della sicurezza e della qualità sia della materia prima che del prodotto finito.
Sono considerati di qualità gli oli di palma che presentano più del 95% di trigliceridi e meno dello 0.5% di acidi grassi liberi.
L’olio di palma certificato è l’alternativa sostenibile
Le palme da olio sono coltivate nei paesi tropicali su grande scala in forma di monocolture industriali. Originariamente gli alberi crescevano spontanei nei territori dell’Africa occidentale ma erano facilmente attaccati da insetti e parassiti, che ne compromettevano la produttività.
Nel 1917 il francese Henri Fauconnier decise di esportare la pianta in territori meno ostili, creando la prima piantagione commerciale in Malesia, oggi il più grande produttore mondiale di olio di palma e olio di palmisto.
L’espansione incontrollata delle piantagioni e delle aziende palmicultrici hanno avuto effetti ambientali drammatici: deforestazione, distruzione degli ecosistemi e degli habitat, erosione del suolo, contaminazione delle acque e cambiamento climatico.
Per contenere gli impatti ambientali e sociali, nel 2004 è stato istituito il sistema di certificazione volontaria RSPO (Roundtable on Sustainable Palm Oil), che ha introdotto standard internazionali di sostenibilità per la catena di approvvigionamento dell’olio di palma.
La RSPO è un’associazione Non Profit, i cui membri provengono 7 settori differenti: ONG, produttori, manifatturieri, fornitori, rivenditori, consumatori e finanziatori, che hanno preso posizione a tutela dell’ambiente.
L’olio di palma certificato RSPO è garanzia di pratiche colturali e agricole rispettose delle foreste e delle torbiere, di tutela del mercato locale e sviluppo dei piccoli produttori indipendenti.
L’olio certificato è tracciabile fin dalla piantagione per accertarsi che il terreno di provenienza non sia stato oggetto di deforestazione o di incendio volontario.
Biocarburanti da olio di palma
In Europa il 65% delle importazioni di olio di palma è destinato alla produzione di biocarburanti.
Attualmente l’industria dei biofuel mette a rischio 7 milioni di ettari di foreste, con impatti elevati in termine di flora e fauna.
Per ridurre i rischi ambientali connessi alla monocoltura intensiva di palme da olio, la Commissione Europea ha varato la Direttiva RED II, che si prefigge entro il 2030 di eliminare l’impiego dell’olio di palma nelle miscele europee di biofuel.
Per un risparmio in termini sia economici che ambientali, è preferibile utilizzare per la produzione di gasolio biologico oli di scarto, i cosiddetti oli vegetali di riciclo.
Per garantire l’approvvigionamento continuo di materia prima seconda, è importante estendere la raccolta differenziata e il recupero anche agli oli esausti domestici, stimati mediamente pari a 130000 ton all’anno.
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